“II colore del credo, delle cravatte, degli occhi, dei pensieri, dei modi, dei toni di voce s’imbatte sicuramente, in qualche punto del tempo e dello spazio, nella fatale reazione di una folla che odia quel particolare tono. E quanto più una persona è brillante, quanto più è insolita, tanto più è vicina al rogo. Stranger (diverso) rima sempre con danger (pericolo). II mite profeta, il mago nella sua grotta, l’artista indignato, lo scolaretto non conformista partecipano di questo sacro pericolo. Stando cosi le cose, ringraziamoli, ringraziamo i diversi; perché nell’evoluzione naturale delle cose, la scimmia forse non sarebbe mai diventata uomo se non fosse apparso un diverso nella famiglia.”
Da “L’arte della letteratura e il senso comune” – Vladimir Nabokov
Uscire da una retorica sulla diversità.
Da dove nasce questa esigenza di confrontarsi con il diverso, la diversità, le differenze? Anche se fosse solo una moda non possiamo non interrogarci sul come mai si va sempre più sviluppando questo interesse.
Il Novecento è stato fortemente influenzato dalla scoperta da parte di Freud dell’inconscio, dall’affermazione della psicoanalisi, scoperta che ha dato a tutti la possibilità di confrontarsi con il Sé e con l’Io, con l’emergere della soggettività.
Il protagonista del Novecento è stato l’Io, tanto che il narcisismo fu individuato come il disturbo caratterizzante del secolo. Ma già alla fine del Novecento, grazie all’esplosione della Rete, della globalizzazione, dell’abbattimento delle frontiere, il vero protagonista è diventato l’altro da noi.
L’altro. Il tema dell’altro, nei discorsi sulla diversità, viene affrontato generalmente in modo idealistico, superficiale, consolatorio. Quasi mai partendo dalla consapevolezza che ognuno di noi è l’altro per qualcun altro.
Quello della diversità è un concetto ambivalente: da un lato suscita mistero e timore, poiché è la rappresentazione di una deviazione da uno standard, (dal lat. Divertere: volgere altrove, in direzione opposta, deviare), dall’altro la parola diversità ha la stessa radice etimologica della parola divertire, parola che ci connette a curiosità e fascino.
Questo vuol dire che ogni volta che entriamo in relazione con l’altro abbiamo la possibilità di scegliere se considerarlo un nemico o farci coinvolgere dalla curiosità di conoscerlo. Ma anche se facciamo quest’ultima scelta, le cose poi non sono così semplici.
Lo psicoanalista Sarantis Thanopulos a proposito di uno degli ultimi filmati che ha incantato la rete su YouTube (il filmato di due neonati gemelli che si abbracciano mentre l’infermiera fa loro il bagno) ha così commentato: “va in scena una concezione della fraternità depurata dal dissenso e dalle divergenze, tutta piegata sull’uniformazione dei pensieri e dei vissuti e sull’illusione di solidità e di sicurezza. Mentre l’abbraccio contiene l’odio della lotta: è la forza propulsiva dello scontro che facilita l’incontro e Io rende consistente, solido. La dissociazione dell’odio dall’amore affligge in modo evidente la nostra civiltà e non c’è modo peggiore di affrontarla che avvolgerla d’amore immaginario. C’è molta violenza nel nostro sguardo se quando non trova l’amore lo inventa, e la perdita della capacità di sentirsi perturbati ci impedisce di comprenderlo.”
Quello che sta succedendo nei discorsi sulla Diversità è proprio quello di negare la potenza perturbante dell’altro e la nostra capacità di ascoltare, saper accogliere e riconoscere ciò che ci perturba nella diversità.
Quello che ci sta dicendo Thanopulos è che per arrivare ad incontrarmi con l’altro devo innanzitutto capire cosa mi separa dall’altro e poi risalire la china costruttiva del riconoscimento dei miei limiti e di quelli altrui.
In questi trent’anni di frequentazione attiva dei contesti organizzativi il lavoro più impegnativo, più faticoso, a volte anche estenuante è consistito nell’accogliere il disagio delle persone, ascoltare il loro turbamento nel vedere l’altro come nemico: l’altro è il mio capo, l’altro è il mio collega, l’altro è l’azienda stessa. Solo attraverso questo ascolto, senza negazione nè giudizi, è stato possibile stimolare, guidare le persone a guardare all’altro come interlocutore con cui confrontarsi, negoziare, eventualmente confliggere per costruire.
Credo, quindi, che possiamo approdare al valore della diversità solo se ci lasciamo perturbare da essa e sappiamo riconoscere e valorizzare questa perturbazione nel contesto sociale in cui viviamo, sia essa azienda o società.
Quello della diversità potrà diventare concretamente una nuova narrazione se, quindi, usciamo fuori dalla retorica della diversità e facciamo i conti con la fatica dell’ascolto, l’impegno nel capire, il tormento della pazienza, il conflitto, la quota di intolleranza che è implicitamente presente nell’entrare in contatto con l’altro.
Il passaggio dal paradigma culturale dell’identità al paradigma della differenza, già presente in autori quali Nietzsche, Heidegger, Foucault, Derrida, Irigaray, Levinas, Jean-Luc Nancy, è stato sollecitato dallo scambio, dalla mescolanza, dal meticciamento culturale che caratterizza sempre di più la nostra attualità.
“Il paradigma dell’identità – afferma Franco Cambi (professore ordinario di pedagogia generale, direttore del Dipartimento di Scienze dell’educazione di Firenze ) – non è più riconducibile al feticismo delle radici e delle appartenenze, è una identità sempre più di migrazione, dove l’appartenenza è di natura trasversale.” “Chi emigra – dice Cambi – si sradica (portando con se le proprie radici) e si inoltra in ‘terre straniere’, dove stanno altri soggetti, altre culture, che lo spiazzano, lo respingono, lo emarginano. Ma l’emigrazione esige volontà di integrazione, di confronto, di accoglienza, quindi si dispone al dialogo e all’incontro. L’effetto di queste pratiche – per dure che esse siano – è quella ‘mente nomade’, più libera, più plurale, più aperta che è la richiesta del presente”. E “il farsi meticci è valore”, dice ancora Cambi. Siamo in una condizione ibridante, in una “forma meticciante del pensiero e dell’agire”. “Meticciato – aggiunge – significa accogliere le ragioni dell’altro, forme della sua identità, caratteri della sua cultura, poiché proprio il dialogo trasforma, miscela, apre spazi di scambio, crea comunicazione”.
Affrontare la diversità significa essere disposti a farsi ibridare, contaminare, a ripensare alla propria identità già come portatrice di pluralità, assumere la “forma mentis” dell’emigrante, accompagnando la necessità di misurarsi con la diversità, alla necessità di farsi conoscere nella propria diversità.
Se l’identità muove i suoi passi senza perdere di vista il nodo della non appartenenza, è allora possibile che l’uomo veda nella sofferenza dell’altro, nella non appartenenza dell’altro, la propria sofferenza, la propria identità, la propria alterità, la propria singolare pluralità.
Aprirsi alla Diversità significa pensare a se stessi non come ad un corpo chiuso, essere persona non come un pieno di sè, ma piuttosto come un vuoto per sè: un’area di circolazione di significati.
L’organizzazione per sua natura necessariamente divide, si serve di ruoli, attività compiti e risultati separati, disgiunti, di obiettivi parziali. E’ attraverso la relazione tra “altri”, la sua qualità, che il sistema organizzativo si riconnette, esprime le sue potenzialità, il suo capitale innovativo.