Quattro autrici e un lavoro corale, per tentare di uscire dal vecchio ma sempre attualissimo dilemma lavoro-vita, e mettere insieme riflessioni e pratiche dell’arte di integrare.
Come madri, tutte abbiamo vissuto in prima persona la cruciale esperienza della ‘conciliazione’ tra ruolo materno, ruolo lavorativo e altri aspetti dell’identità; come formatrici e ricercatrici, da anni ci dedichiamo insieme allo studio dei temi legati alla diversity&inclusion con una particolare attenzione alla questione della genitorialità, che riguarda naturalmente in ugual misura donne e uomini.
“Genitori al lavoro” nasce quindi da un’esperienza condivisa, sia sul piano personale che professionale:
Abbiamo voluto offrire uno sguardo da tre punti di vista distinti e convergenti per cercare di comporre – come recita il sottotitolo – in un insieme armonico figli, lavoro, vita.
L’intento è di accompagnare madri, padri e aziende a riflettere su nuovi modelli possibili di gestione del work-life balance con uno sguardo multidisciplinare, tra comportamento organizzativo, psicologia e management e con l’ausilio di storie personali e di esperienze aziendali che danno maggiore concretezza al pensiero.
Ecco l’intervista di Adele Mapelli, curatrice del libro con Laura Girelli, per il Sole24Ore:
Si comincia, anche per onorarne le “fatiche”, dal punto di vista delle madri, con la considerazione che il ruolo materno ha oggi un grado di complessità sconosciuto alle generazioni precedenti. La scelta di diventare madri e, in parallelo, continuare nel proprio impegno professionale si scontra ancora spesso con il duplice dogma per cui “se sei una brava madre non dovresti lavorare” e “se vuoi lavorare bene non dovresti essere madre”.
Legittimare nelle donne la loro ambivalenza verso i vari ruoli e verso la fatica stessa della conciliazione significa porre premesse più sane e solide perché l’esperienza della maternità si traduca in una ri-nascita positiva a se stesse, alla relazione genitoriale e al ruolo professionale.
Per quanto riguarda i papà, finalmente anche in Italia, pur con un certo ritardo, stanno comparendo sulla scena i “nuovi padri”; numerosi sono i segnali che indicano un maggior coinvolgimento degli uomini nei compiti di cura: da una parte, le politiche a sostegno della maternità e della paternità, sia a livello europeo che italiano, enfatizzano il coinvolgimento dei padri attraverso l’istituzione di un congedo espressamente dedicato a loro con ricadute pratiche sulle imprese. Dall’altra parte, la maggiore diffusione del modello familiare “a doppia carriera” rende necessaria e urgente una genitorialità condivisa da entrambi i partner.
Ci troviamo di fronte a una profonda rinegoziazione identitaria da parte dell’uomo, e questo coinvolgimento affettivo, operativo e concreto nella vita dei figli piccoli pone la necessità di una revisione di modelli dentro e fuori la famiglia. Accanto a loro però continua a permanere un modello maschile più tradizionale che fatica a trovare un equilibrio tra vecchi schemi e le richieste ed esigenze di compagne impegnate nel mondo del lavoro.
E le aziende? Il terzo punto di vista su cui ci siamo confrontate è quello delle organizzazioni lavorative; si tratta di fare un ulteriore passaggio culturale e iniziare a guardare alla genitorialità a più ampio raggio: non solo neo-madri in congedo, ma padri e genitori che vogliono essere presenti nella vita dei figli.
Spesso infatti la gravidanza, ed il suo portato fisiologico e psicologico, appare difficilmente integrabile con le aspettative e le esigenze normative del mondo del lavoro, diventando un fattore stigmatizzante non solamente per le lavoratrici che stanno affrontando la maternità, ma anche per le donne che potenzialmente potrebbero scegliere di diventare madri.
Le donne in attesa di un bambino sperimentano, rispetto alle donne non in stato di gravidanza, uno svantaggio nell’ingresso nel mondo del lavoro, sono oggetto di più stereotipi negativi, hanno meno probabilità di essere assunte, sono più discriminate nelle promozioni e nelle valutazioni delle prestazioni.
La convinzione intrinseca, che viene descritta come “intensive mothering”, è che le madri difficilmente possano riuscire a dedicarsi al lavoro dal momento che devono essere sempre a disposizione dei propri figli. Come se il mercato del lavoro fosse strutturato su un modello di ‘lavoratore ideale’ libero dagli impegni familiari, in grado di dedicare al lavoro tante ore al giorno (a scapito del suo tempo libero) e sempre pronto ad accettare tutti gli incarichi che gli vengono proposti.
Ma in questo quadro desolante, emerge uno spiraglio di luce.
Le ricerche rivelano che le organizzazioni hanno la possibilità di influenzare positivamente le esperienze delle lavoratrici gestanti attraverso specifiche politiche e strumenti che vanno a lavorare sia sulla percezione di supporto organizzativo da parte delle donne in stato di gravidanza, sia sugli stereotipi di chi lavora accanto a loro, colleghi, collaboratori, capi, datori di lavoro.
Per fare questo occorre una precisa attenzione gestionale: esiste la possibilità di creare ambienti di lavoro più socialmente responsabili nei confronti delle lavoratrici in attesa ma anche più inclusivi nei confronti dei lavoratori di genere maschile che vorrebbero dedicarsi maggiormente alla cura dei propri figli, ma che non lo fanno perché inseriti in contesti lavorativi che disapprovano socialmente le richieste di congedi o di permessi, in quanto considerate prove di uno scarso attaccamento alla propria professione.
Lavorare per la costruzione di una cultura inclusiva significa creare le condizioni per una uguaglianza sostanziale di uomini e donne sia all’interno che all’esterno del contesto lavorativo.
Spetta ora alle aziende saper cogliere questi cambiamenti attraverso una loro traduzione operativa in interventi mirati e un serio ripensamento delle politiche di gestione delle persone.