Intervista a Claudia Strasserra
La redazione di Wise Growth ha avuto il piacere di intervistare Claudia Strasserra, Chief Reputation Officer e Sustainability Manager di Bureau Veritas Italia, che ci ha aiutato a fare chiarezza sul panorama relativo alle norme e certificazioni in ambito Diversity & Inclusion.
Osservando il passato, bisogna riconoscere che la Diversity & Inclusion ha fatto veramente molta strada.
Inizialmente, intorno agli anni 2000, la D&I era ritenuta sia dai ricercatori che dai manager un elemento tutto sommato marginale rispetto a contenuti che allora erano prioritari, come ad esempio il change management o i temi afferenti al clima organizzativo.
In seguito, col trascorrere degli anni, l’attenzione in merito è aumentata, e si è arrivati addirittura a teorizzare – giustamente – che l’approccio utilizzato per affrontare i temi D&I possa interessare anche ambiti più estesi.
Lo stesso clima organizzativo, ad esempio, può essere “avvelenato” proprio dai meccanismi di esclusione. In alcune culture aziendali, infatti, si tende ad escludere certi “segmenti di persone” per caratteristiche che non riguardano l’ambito professionale, a causa di stereotipi diffusi, radicati e inconsci.
Analogamente, la D&I può fornire un utile approccio metodologico anche nei processi di gestione HR, dal recruitment alla retribuzione, per rilevare e comprendere eventuali situazioni di non obiettività.
Analizzando il contesto attuale si può affermare che i temi relativi all’inclusione sono diventati mainstream e oggi moltissime realtà desiderano approfondirli per osservare con lenti nuove la relazione con i propri collaboratori.
In questo scenario vi è il rischio di fermarsi all’apparenza, alla moda, al “washing”. Le emozioni suscitate dalle storie individuali di esclusione spesso non sono sufficienti per tradursi in azioni organizzative concrete.
Come Wise Growth stiamo cercando di proporre una svolta che può essere definita con due aggettivi: profondità e continuità.
Profondità, perché siamo consapevoli che non è possibile includere davvero se non si comprendono alla radice le dinamiche (anche teoriche) di esclusione. Continuità, perché per ottenere un cambiamento tangibile sulla cultura aziendale è necessario predisporre strategie di lungo periodo.
A completare questo quadro si aggiungono oggi altri strumenti, come il codice delle Pari Opportunità, la norma ISO 30415 e la PdR UNI 125:2022 che prevede l’adozione di specifici KPI.
Chiediamo a Claudia Strasserra, che da anni si occupa di certificazioni, se ci può aiutare a capire questo mondo.
La normativa UNI e ISO offre dei modelli di riferimento che le organizzazioni possono volontariamente adottare. Nel 2021 è stata pubblicata la ISO 30415, prima norma dell’International Standard Organization in ambito Diversity & Inclusion. La norma abbraccia un concetto di Diversity a 360° e ha il grande pregio di rivolgersi non solo alle Risorse Umane, ma anche alle numerose altre funzioni – dal marketing alla comunicazione – che possono giocare un ruolo importantissimo in ambito D&I: basti pensare alla rilevanza di una progettazione che consideri le diverse abilità ed esigenze di bambini, anziani, mancini… oppure all’impatto di un messaggio pubblicitario che può sensibilizzare sui temi dell’inclusione. La ISO 30415 si offre al lettore per una riflessione interna che può culminare con un self-assesment, secondo una checklist riportata in appendice. È possibile anche chiedere una valutazione di terza parte indipendente per uscire dall’autoreferenzialità e beneficiare del punto di vista di valutatori professionisti.
Il 16 marzo 2022 è stata pubblicata, inoltre, la Prassi di Riferimento UNI focalizzata sulla parità di genere. In sintonia con i principi della ISO 30415, la PdR UNI 125:2022 definisce un sistema di gestione per garantire la gender equality, indicando anche i KPI fondamentali per misurare il proprio livello di maturità. La Prassi di Riferimento prevede l’intervento di una terza parte indipendente, chiamata a certificare la conformità del sistema di gestione rispetto ai requisiti, nonché il raggiungimento di una soglia minima di punteggi derivante dalla copertura – o meno – dei diversi KPI. La certificazione della parità di genere – richiamata peraltro già nel PNRR – dà accesso a sgravi fiscali e premialità.
Ma è davvero possibile e opportuno quantificare e certificare l’inclusività?
Da una parte potremmo incorrere nel rischio di una riduzione a meri numeri, non rappresentativi delle reali condizioni di vita e lavoro nell’organizzazione. Dall’altra, appare difficile misurare e comprendere aspetti evanescenti e poco tangibili come quelli culturali e psicologici.
Claudia Strasserra ci illustra quali possono essere di vantaggi di un approccio che, a volte, forse è visto come più burocratico che concreto.
Partirei da questa considerazione, un vero e proprio “mantra” per noi che ci occupiamo di sistemi di gestione: “Non si può migliorare ciò che non si riesce a misurare”.
Assodato e condiviso che l’obiettivo è il miglioramento, dobbiamo cercare di valutare quantitativamente il fenomeno, andando ad identificare quei KPI che davvero esprimono grandezze significative.
Quindi ha senso misurare quegli “indicatori sentinella” che possono esprimere squilibri e disparità. Solo per fare qualche esempio: la differenza retributiva tra uomini e donneper medesimo livello di inquadramento; oppure la percentuale di donne presenti nell’organizzazione con delega su un budget di spesa/investimento; o ancora la percentuale di donne presenti nella prima linea di riporto al vertice.
Nell’implementare un sistema di gestione per la parità di genere, non parlerei tanto di burocrazia quanto di “metodo”. Un metodo per analizzare il contesto, misurare il fenomeno, identificare aree di debolezza e obiettivi di miglioramento, da conseguire mettendo in atto una serie di azioni sottoposte a monitoraggio continuo nel tempo.
È importante quindi, per dare profondità e continuità all’azione, passare da una dimensione qualitativa, di impressione, ad una quantitativa che consenta di rilevare, ma soprattutto di comparare, i fenomeni. E questo è quanto si prefigge ogni tipo di certificazione.
Claudia Strasserra aggiunge: Un altro tema importante è quello delle procedure, che sono qualcosa di ben diverso dalla burocrazia. La procedura è la formalizzazione di un processo che funziona così bene che vogliamo metterlo “nero su bianco”, in questo modo chiunque entri in azienda può apprenderla e seguirla. La procedura aiuta a non disperdere le best practices e il know how, consente di uscire dalla soggettività e dalla discrezionalità, che insieme rappresentano una potenziale minaccia alla parità di trattamento.
In conclusione, possiamo affermare che una certificazione può essere un supporto molto valido nel percorso di implementazione di policy D&I in azienda.
Come sempre, dipende da quale modalità si sceglie e dalla capacità di diffondere i temi in modo chiaro: coinvolgendo le persone non nell’assecondare in modo passivo qualcosa di astratto, ma mettendo in luce gli elementi fondanti di una politica ispirata a una vera cultura inclusiva.