Nelle aziende sta diventando sempre più attuale parlare di sostegno alla genitorialità: favorendo politiche e pratiche che agevolino i lavoratori nella conciliazione tra impegni famigliari di cura ed efficacia sul lavoro. Questo nuovo orientamento a sostegno del benessere globale dei lavoratori sembra accompagnare la percezione diffusa che il passaggio alla parità nelle relazioni di cura stia avvenendo e che sulla donna non ricada più in modo esclusivo la cura dei figli.
Ma nel nostro Paese qual è la situazione? Questo passaggio è effettivamente in corso?
Guardando al 2016 appena passato le ricerche e statistiche suggeriscono purtroppo che la maternità costituisce ancora un pesante ostacolo al lavoro per le donne: fare figli implica troppo spesso perdere il lavoro, faticare a mantenerlo e ancor più difficoltà a ritrovarlo.
Secondo gli ultimi dati ISTAT-INPS (qui la riflessione di Tito Boeri sul tema) solo il 54,3% delle madri italiane svolge un’attività lavorativa extradomestica. Una donna su cinque interrompe il lavoro a due anni dalla nascita del figlio (22,3%) e Il tasso di occupazione femminile diminuisce in relazione al numero della prole (lavora solo il 30 % delle donne che hanno più di un figlio).
Altri dati fotografano in modo poco rassicurante il tema della presenza delle donne in posizioni di vertice e di leadership: la recente Women in the workplace 2016, ricerca svolta da McKinsey e Leanin.org su un campione di 132 multinazionali e 34 mila lavoratori maschi e femmine ha evidenziato come la maggior parte delle donne sembri arretrare rispetto a posizioni di responsabilità: di fronte ad una promozione, ad un ruolo di comando le donne si tirano indietro e rispondono no per il timore di non essere in grado di conciliare lavoro e famiglia. In sostanza una sorta di auto-esclusione dove però il tema vero è la domanda del perché le donne si tirano indietro. E questo la ricerca pare non averlo indagato. I risultati a ben vedere sembrano l’ennesima conferma della consapevolezza che le donne hanno dei mille problemi che il contesto sociale e organizzativo pone davanti: il loro senso pratico e la loro concretezza suggerisce evidentemente di lasciar perdere, in un contesto dove la parità è ancora lontana e impegno e sforzo non sono uguali per donne e uomini.
Recentemente è parso interessante il tentativo di rinobilitare il periodo della maternità equiparandolo ad un master intensivo: un periodo di crescita personale, di rafforzamento delle proprie capacità relazionali e organizzative. Di qui diverse proposte di momenti di formazione dedicati, in cui divenire consapevoli di queste competenze per poterle valorizzare e spendere al meglio nel contesto lavorativo: occuparsi della prole renderebbe più flessibili, più capaci di negoziare, di comunicare e di pianificare e decidere con tempestività ed efficacia.
Parenting e management: parrebbe finalmente costruita una relazione di mutuo beneficio e di trasferibilità tra skills praticate in due contesti così diversi come famiglia e azienda.
Una relazione promettente che sembrerebbe rendere finalmente attuabili i modelli di leadership più avanzati basati su collaborazione, cura e responsabilità per la crescita e il benessere dei singoli e delle organizzazioni nel loro complesso.
La nascita e la partecipazione alla cura e alla crescita dei propri figli è sempre raccontata, da uomini e donne, come uno degli eventi di vita più intensi e straordinari e che può tradursi in una fase di cambiamento e di rafforzamento individuale in termini di autostima e identità personale.
Sarebbe quindi solo un tema di facilitare nelle donne la consapevolezza di questi apprendimenti e cambiamenti? La questione è molto più complessa: chiunque si occupi di assessment di competenze e di comportamento organizzativo sa bene quanto sia complesso il tema dell’efficacia e dello sviluppo delle competenze individuali per il ruolo decisivo che la cultura e le relazioni del contesto organizzativo di riferimento svolgono. Le organizzazioni sono sistemi complessi dove è necessario sapere interagire con più network e più livelli, tenendo presente dinamiche gerarchiche e di gestione del potere assai differenti da quelle del contesto famigliare. Il modello di leadership più diffuso è ancora quello del maschio-capo con stile dominante che premia la cooptazione piuttosto che il merito. Altrettanto fondamentale è poi la motivazione personale a voler portare in ambito professionale le competenze e abilità maturate altrove.
Su questo punto sta alle aziende e al management interrogarsi su come introdurre pratiche e politiche che incoraggino le donne, come gli uomini, a portare i propri talenti in azienda, riconoscendo e valorizzando il potenziale e le risorse che l’esperienza di cura può liberare.
Nel dibattito internazionale sul tema maternità e lavoro anche guardando Oltreoceano fa riflettere la decisione di colossi tecnologici di offrire la crioconservazione per le proprie lavoratrici donne, come a dire che “la conciliazione” pare ancora una lontana illusione. Invece di soluzioni di reale cambiamento ed evoluzione sociale l’innovazione sarebbe di chiedere ancora alle donne di aspettare, di mettere da parte, di rimandare a dopo il desiderio di maternità. Per fare carriera è richiesta la concentrazione esclusiva sul lavoro: il lavoratore migliore non deve avere distrazioni. Un’ennesima richiesta di scambio che per la donna non è nemmeno questa volta a costo zero né in termini psicologici né in termini fisici e di salute.
Guardando all’Italia non ci resta che augurarci che il recentissimo emendamento per l’introduzione di congedi di paternità obbligatori di 15 giorni a retribuzione piena diventi realtà, contribuendo ad un salto culturale autentico che affermi nel mercato del lavoro la figura del genitore che lavora e che, traghetti dalle pari opportunità alle pari responsabilità.
L’articolo tocca temi estremamente interessanti. La chiave di volta, come ben precisato dall’autrice, è un “salto culturale”. Occorrerebbe sfatare il luogo comune secondo il quale una mamma che non si dedica a sufficienza alla famiglia è una cattiva mamma e quello secondo cui un uomo che invece vi si dedica è un “mammo” e non sarà mai uno che farà strada nel lavoro. Occorre un equilibrio tra tutto. La sostanziale parità uomo-donna tra impegni lavorativi e familiari farebbe venir meno ogni tipo di discriminazione a livello aziendale, eviterebbe di portare le donne all’auto-esclusione e contribuirebbe al benessere familiare: una donna appagata anche professionalmente è una donna più felice, una donna frustrata lavorativamente, oltre a non dare il giusto apporto al lavoro non può far altro che riversare la sua frustrazione nel rapporto di coppia, con le conseguenze che tutti noi conosciamo. Si creerebbe in tal modo un circolo virtuoso che gioverebbe sia alle famiglie che alle aziende. Come fare tutto ciò? I salti culturali sono i più difficili da realizzare. Ottima l’introduzione dei congedi di paternità obbligatori ma probabilmente la soluzione ideale sarebbe educare le aziende ed i manager ad una visione diversa. Detto ciò, introduco uno spunto di riflessione (vivendo questo tema quotidianamente da manager d’azienda) sul perché sia così diffuso al giorno d’oggi, specie negli enti pubblici e nelle grandi aziende, il ricorso alla gravidanza a rischio, anche da parte di giovani donne. Si tratta di una sorta di un’auto-esclusione preventiva perché si è già consapevoli che l’esclusione avverrebbe dopo la nascita dei figli oppure di altro (fermi restando i casi in cui i problemi sono effettivamente gravi)? Mi piacerebbe sapere il pensiero dell’autrice in proposito.